Non è un momento di crisi, è la fine di un’epoca

 

Chinese accountants at work in their storeFinisce l’epoca in cui le professioni potevano permettersi di chiamarsi fuori dalle logiche d’impresa. Quelle che riguardano l’aspetto commerciale e il management. Oggi chi di noi non è in grado controllare l’efficienza della propria gestione, chi non è in grado di prendersi tempo per tentare di interpretare il futuro nel mercato della consulenza, e riconvertirsi, è fuori.

Siamo già fuori noi che abbiamo gli studi di trincea, quelli che si occupano di contabilità e adempimenti fiscali, quelli che si prendono le pallottole di quest’assurda, iper prolifica normativa che ci ha costretto a divenire i postini del fisco, i concorrenti dei CAF, quelli che non hanno più tempo di respirare e rischiano l’infarto per lo stress procurato da mille adempimenti e connesse responsabilità, cui siamo sottoposti in nome dell’evoluzione di un sistema che si dichiara votato alla lotta all’evasione ma che in realtà, i grossi evasori, quelli che, talvolta, finiscono in un tribunale penale, non li becca, sostanzialmente, mai.

Siamo già fuori noi piccoli commercialisti, individualisti, con un paio di collaboratori al massimo, spesso giovani colleghi pagati meno di una segretaria. Noi a cui hanno insegnato le tecniche e il diritto, senza spiegarci che il futuro della professione era ed è nella capacità di lavorare in squadra, e che per far questo dobbiamo, ora come allora, far entrare nel nostro bagaglio culturale materie come la comunicazione, il problem solving e altre ancora, che mirano alla formazione dell’individuo, come persona capace di interagire proficuamente, prima ancora che come professionista.

Qualcuno si era illuso che il proprio studio lo avrebbe tramandato ai propri figli, per passargli quel benessere frutto di una vita di sacrifici. Oggi si maledice di non avergli dato un’altra opportunità, di essersi messo in mezzo alle loro scelte. E anche se l’ha fatto con l’amore di un padre, non se lo perdona.

Quattro o cinque anni ancora e tutto il lavoro connesso alle contabilità non ci sarà più o non ci sarà più la convenienza a farlo; e forse è anche giusto che sia così.

Chi siamo noi per pretendere che l’evoluzione non ci tocchi?

Centodiecimila commercialisti in tutta l’Italia, di cui buona parte giovani che se trovassero un impiego ci si fionderebbero senza indugio, alla faccia della libera professione. Il popolo dei laureati senza una vera alternativa alla partita IVA. Quelli che, il più delle volte con una raccomandazione, hanno passato un esame di Stato di un apparente assurda difficoltà. Quasi dovessero essere le professioni a fare da filtro, dopo, invece che l’università, prima.

Oggi il mondo è cambiato, tanto, all’improvviso, o almeno così ci sembra. E noi non ci siamo attrezzati per tempo.

Piove! Governo ladro! E giù a dargli addosso a quelli che ci rappresentano senza rappresentarci veramente. Quelli che se stanno dove stanno è perché glielo abbiamo permesso noi, poco interessati, da buoni italiani, alla politica della categoria, sinora appannaggio di chi si poteva permettere il tempo per praticarla.

Per noi il termine “lobby” è un qualcosa che riecheggia “loggia”, anziché “corporativismo”. Ma noi siamo anche quelli che portano nel proprio DNA (ce lo dice la storia) la capacità di tirare fuori doti d’inventiva e caparbietà per combattere i momenti difficili e venirne fuori.

Oggi, due sono le condizioni ineluttabili per tentare il cambiamento, ed entrambe sottintendono la capacità di fare squadra:

  • sviluppo della cultura all’aggregazione tra professionisti e
  • maggiore responsabilità nel partecipare, quotidianamente (e non soltanto a ridosso delle elezioni di turno) alla vita politica della categoria professionale di appartenenza.

Almeno fino a quando avremo ancora una categoria professionale cui appartenere.
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*Federico de Stasio, presidente Accademia Dottori Commercialisti di Roma aderente Associazione Nazionale Dottori Commercialisti - ANDOC

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