Svimez: al Sud ripresa lenta ed esodo dei giovani

 

Lavoro - photo credit: Guglielmo CelataRischio frenata per l'economia del Mezzogiorno. Secondo le anticipazioni del rapporto Svimez pesano soprattutto la contrazione della spesa pubblica e l'incertezza sul fronte delle politiche.

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La crescita dell’economia meridionale nel triennio 2015-2017 ha solo parzialmente recuperato il patrimonio economico e anche sociale disperso dalla crisi nel Sud. Una ripresa debole e trainata dagli investimenti privati, cui manca il contributo della spesa pubblica. Secondo le anticipazioni del rapporto Svimez 2018, presentate oggi a Roma, c'è forte disomogeneità tra le regioni del Mezzogiorno: nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania registrano il più alto tasso di sviluppo. Cresce l'occupazione ma è debole e precaria, mentre si allarga l'area del disagio sociale, tra famiglie in povertà assoluta e lavoratori poveri. La Svimez segnala anche un nuovo dualismo demografico - meno giovani, meno Sud - , una limitazione dei diritti di cittadinanza, collegata anche al divario nei servizi pubblici.

La dinamica del PIL

Nel 2017 il Mezzogiorno ha proseguito la lenta ripresa ma in un contesto di grande incertezza rischia di frenare. Il PIL è aumentato al Sud dell’1,4%, rispetto allo 0,8% del 2016. Ciò grazie al forte recupero del settore manifatturiero (5,8%), in particolare nelle attività legate ai consumi, e, in misura minore, delle costruzioni (1,7%). La crescita è stata solo marginalmente superiore nel Centro-Nord (+1,5%).

Gli investimenti privati nel Mezzogiorno sono cresciuti del 3,9%, consolidando la ripresa dell’anno precedente: l’incremento è stato lievemente superiore a quello del Centro-Nord (+3,7%).

La crescita degli investimenti al Sud ha riguardato tutti i settori. Ma rispetto ai livelli pre crisi, gli investimenti fissi lordi sono cumulativamente nel Mezzogiorno ancora inferiori del 31,6% (ben maggiore rispetto al Centro-Nord, -20%).

Preoccupante, invece, la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017, -7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel resto del Paese.

Disomogeneità tra le Regioni

Il triennio di ripresa 2015-2017 conferma che la recessione è ormai alle spalle per tutte le regioni italiane, e tuttavia gli andamenti sono alquanto differenziati. Il grado di disomogeneità, sul piano regionale e settoriale, è estremamente elevato nel Mezzogiorno.

Nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania sono le regioni meridionali che fanno registrare il più alto tasso di sviluppo, rispettivamente +2%, +1,9% e +1,8%. Si tratta di variazioni del PIL comunque più contenute rispetto alle regioni del Centro-Nord, se confrontate al +2,6% della Valle d’Aosta, al +2,5% del Trentino Alto Adige, al +2,2% della Lombardia.

In Calabria, la regione che l’anno scorso ha fatto segnare la più significativa accelerazione della crescita, nel periodo 2015-2017 sono state soprattutto le costruzioni a trainare la ripresa (+12% nel triennio), grazie anche alle opere pubbliche realizzate con i fondi europei, seguite dall’agricoltura (+7,9%) e dall’industria in senso stretto (+6,9%). Molto più modesto nell’ultimo triennio l’andamento dei servizi (+2,9%).

La Sardegna, uscita con qualche incertezza dalla fase recessiva rispetto al resto delle regioni meridionali, dopo l’andamento negativo del prodotto nel 2016 (-0,6%), ha fatto registrare nel 2017 un significativo +1,9%. Nel triennio 2015-2017 è stata soprattutto l’industria in senso stretto a marcare un andamento decisamente positivo (+12,9%), mentre le costruzioni si attestano su un +3,1% e i servizi su +3%. Va, invece, decisamente male l’agricoltura, che segna -4,2% nel triennio.

In Campania, dopo la revisione dell’andamento del PIL del 2016 (che scende da +2,4% a +1,5%), il 2017 è stato un anno in cui il prodotto lordo ha continuato a crescere dell’1,8%, confermando nel triennio di ripresa un importante dinamismo. Nella regione sono andate molto bene le costruzioni (+16,5% nel 2015-2017), spinte dalle infrastrutture finanziate con i fondi europei, ma anche l’industria in senso stretto prosegue la sua corsa (+8,9% negli ultimi tre anni), grazie soprattutto alla spinta dei Contratti di Sviluppo, gran parte dei quali ha riguardato proprio la Campania. I servizi fanno segnare nel triennio un più modesto +3,7%, per merito in particolare del turismo. Mentre l’agricoltura va in controtendenza e accusa una flessione tra 2015 e 2017 pari a -1,3%.

La Puglia, che nel 2016 aveva molto frenato (+0,2%) rispetto al positivo andamento del 2015 (+1%), rialza la testa e il PIL regionale nel 2017 si attesta a +1,6%. Merito, in particolare, dell’industria delle costruzioni, anche in questo caso trainata dalla spesa dei fondi europei per le opere pubbliche (+11,5%), ma anche da un’intonazione positiva dell’industria in senso stretto (+9,4%). L’agricoltura pugliese, pur con i problemi che ha vissuto e che continua ad avere, fa registrare una performance positiva (+4% nel triennio) mentre sono sostanzialmente stazionari i servizi, che registrano un modesto +0,7%.

L’Abruzzo rialza la testa, nel 2017, con un PIL che cresce dell’1,2%: aveva fatto registrate appena +0,3% nel 2015 e +0,2% nel 2016. La ripresa è dovuta soprattutto all’agricoltura (+9% nel triennio), e in parte anche all’industria in senso stretto (+3,8%). I servizi segnano un più modesto incremento del +2%, mentre le costruzioni, in controtendenza rispetto al resto del Sud, vanno male: la loro performance tra il 2015 e il 2017 è negativa, -14,5%.

La Basilicata si attesta su un incremento del PIL modesto, +0,7% nel 2017, dopo la forte accelerazione della crescita negli anni scorsi: addirittura +8,9% nel 2015, +1,3% nel 2016. Va notato che l’industria lucana è in forte ripresa già dal 2014 e continua a trainare l’economia regionale, sia pure con intensità diverse, nel triennio, al termine del quale registra una performance molto positiva (+47% nel 205-2017). Nel periodo, vanno bene anche le costruzioni (+18,3%) mentre sia i servizi (- 1,3% nel triennio) che l’agricoltura (-1,2%) appaiono in controtendenza rispetto al resto dell’economia meridionale.

La Sicilia, invece, fa segnare un rallentamento della crescita, +0,4% nel 2017, dopo aver registrato un aumento del PIL dell’1% nel 2016 e dello 0,9% nel 2015. Nell’Isola l’industria in senso stretto fa segnare nel triennio di ripresa una performance importante (+14,1%), anche l’agricoltura fa registrare un andamento complessivamente positivo (+2%) e così i servizi (+1,6%). A frenare l’andamento dell’economia siciliana, così come in Abruzzo, è il settore delle costruzioni che fa segnare il -6,3% nel periodo 2015-2017.

L’unica regione meridionale che nel 2017 ha fatto registrare un andamento negativo del PIL è il Molise, -0,1%, che, era cresciuto dell’1,3% nel 2015 e dell’1,1% nel 2016. L’economia del Molise è stata sostenuta nel 2015-2017 dalle costruzioni (+26,4%), ma l’industria in senso stretto fa registrare una performance particolarmente negativa (- 7,4%). I servizi nel triennio registrano un +2%, mentre langue l’agricoltura (+0,4%).

Rischio frenata nel 2018 e 2019 senza politiche adeguate

In base alle previsioni elaborate dalla Svimez, nel 2018, il PIL del Centro-Nord dovrebbe crescere dell’1,4%, in misura maggiore di quello delle regioni del Sud +1%. I consumi totali interni pesano sulla differente dinamica territoriale (+1,2% nel CentroNord e + 0,5% nel Sud), in particolare i consumi della PA, che segnano +0,5% nel Centro-Nord e -0,3% nel Mezzogiorno.

Ma è soprattutto nel 2019 che si rischia un forte rallentamento dell’economia meridionale: la crescita del prodotto sarà pari a +1,2% nel Centro-Nord e +0,7% al Sud. In due anni, un sostanziale dimezzamento del tasso di sviluppo.

Il rallentamento “tendenziale” dell’economia meridionale nel 2019 è stimato dalla Svimez, in un contesto di neutralità della policy, in attesa della Nota di aggiornamento al DEF e della Legge di Bilancio. In assenza di una politica adeguata, anche l’anno prossimo il livello degli investimenti pubblici al Sud dovrebbe essere inferiore di circa 4,5 miliardi se raffrontato al picco più recente (nel 2010).

Se, invece, nel 2019 fosse possibile recuperare per intero questo gap, favorendo in misura maggiore gli investimenti infrastrutturali di cui il Sud ha grande bisogno, ciò darebbe luogo a una crescita aggiuntiva di quasi un punto percentuale (+0,8%), rispetto a quella prevista (appena un +0,7%), per cui il differenziale di crescita tra Centro-Nord e Mezzogiorno sarebbe completamente annullato, anzi, sarebbe il Sud a crescere di più, con beneficio per l’intero Paese.

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Stretta interdipendenza tra Nord e Sud

Centro-Nord e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme. La crescita del Mezzogiorno, al di là della rilevanza dei fattori locali, che pure hanno una loro rilevanza, è fortemente influenzata dall’andamento dell’economia nazionale, e viceversa.

La crescita del Centro-Nord, al di là della sua maggiore integrazione nei mercati internazionali, è altrettanto dipendente, per diverse ragioni, dagli andamenti del Mezzogiorno. Lo dimostra il fatto che nel periodo 2000-2016 le due macro-aree hanno condiviso la stessa dinamica stagnante del PIL pro capite: +1,1% in media annua.

Basti pensare che, in base ai calcoli della Svimez, 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi.

Al Sud una cittadinanza limitata

Il ritmo di crescita è del tutto insufficiente ad affrontare le emergenze sociali nell'area. Anche nella ripresa si allargano le disuguaglianze: aumenta l’occupazione, ma vi è una ridefinizione al ribasso della sua struttura e della sua qualità: i giovani sono tagliati fuori, aumentano le occupazioni a bassa qualifica e a bassa retribuzione, pertanto la crescita dei salari risulta “frenata” e non in grado di incidere su livelli di povertà crescenti, anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento risulta occupata.

Il divario nei servizi pubblici, la cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale dell’area e rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo.

Occupazione in ripresa, ma debole e precaria

È proseguita nel 2017, sia pur con un rallentamento a fine anno, la crescita dell’occupazione: nel Mezzogiorno aumenta di 71 mila unità (+1,2%) e di 194 mila nel Centro-Nord (+1,2%). Ma al Sud è ancora insufficiente a colmare il crollo dei posti lavoro avvenuto nella crisi: nella media del 2017 l’occupazione nel Mezzogiorno è di 310 mila unità inferiore al 2008, mentre nel complesso delle regioni del Centro-Nord è superiore di 242 mila unità.

Nel corso del 2017 l’incremento dell’occupazione meridionale è dovuta quasi esclusivamente alla crescita dei contratti a termine (+61 mila, pari al +7,5%) mentre sono stazionari quelli a tempo indeterminato (+0,2%). Vi è stata una brusca frenata di questi ultimi rispetto alla crescita del 2,5% nel 2016, il che dimostra che stanno venendo meno gli effetti positivi degli sgravi contributivi per le nuove assunzioni al Sud.

In questi anni si è profondamente ridefinita la struttura occupazionale, a sfavore dei giovani, testimoniata dall’invecchiamento della forza lavoro occupata.

Il dato più eclatante è il drammatico dualismo generazionale: il saldo negativo di 310 mila occupati tra il 2008 e il 2017 al Sud è la sintesi di una riduzione di oltre mezzo milione di giovani tra i 15 e i 34 anni (-578 mila), di una contrazione di 212 mila occupati nella fascia adulta 35-54 anni e di una crescita concentrata quasi esclusivamente tra gli ultra 55enni (+470 mila unità).

Cresce il disagio sociale

Nel Mezzogiorno si delinea una netta cesura tra dinamica economica che, seppur in rallentamento, ha ripreso a muoversi dopo la crisi, e una dinamica sociale che tende ad escludere una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro, ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione.

Il numero di famiglie meridionali con tutti i componenti in cerca di occupazione è raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362 mila a 600 mila (nel Centro-Nord sono 470 mila). Il numero di famiglie senza alcun occupato è cresciuto anche nel 2016 e nel 2017, in media del 2% all’anno, nonostante la crescita dell’occupazione complessiva, a conferma del consolidarsi di aree di esclusione all’interno del Mezzogiorno, concentrate prevalentemente nelle grandi periferie urbane. Si tratta di sacche di crescente emarginazione e degrado sociale, che scontano anche la debolezza dei servizi pubblici nelle aree periferiche.

Preoccupante la crescita del fenomeno dei working poors: la crescita del lavoro a bassa retribuzione, dovuto a complessiva dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario, è una delle cause, in particolare nel Mezzogiorno, per cui la crescita occupazionale nella ripresa non è stata in grado di incidere su un quadro di emergenza sociale sempre più allarmante.

Poche nascite, esodo dei giovani

Nel 2017 la popolazione italiana ammonta a 60 milioni e 660 mila unità, in ulteriore calo di quasi 106 mila unità. È come se sparisse da un anno all’altro una città italiana di medie dimensioni.

La popolazione diminuisce malgrado aumentino gli stranieri: nel 2017 il calo è stato di 203 mila unità a fronte di un aumento di 97 mila stranieri residenti. Il peso demografico del Sud diminuisce ed è ora pari al 34,2%, anche per una minore incidenza degli stranieri (nel 2017 nel Centro-Nord risiedevano 4.272 mila stranieri rispetto agli 872 mila stranieri nel Mezzogiorno).

Negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno 1 milione e 883 mila residenti: la metà giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati, il 16% dei quali si è trasferito all’estero. Quasi 800 mila non sono tornati.

Anche nel 2016, quando la ripresa economica ha manifestato segni di consolidamento, si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 131 mila residenti.

Tra le regioni meridionali, sono la Sicilia, che perde 9,3 mila residenti (-1,8 per mille), la Campania (-9,1 mila residenti, per un tasso migratorio netto di -1,6 per mille) e la Puglia (-6,9 mila residenti, per un tasso migratorio netto pari a -1,7), quelle con il saldo migratorio più negativo.

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Il divario nei servizi pubblici

Ancora oggi al cittadino del Sud, nonostante una pressione fiscale pari se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano (o sono carenti) diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia.

In particolare, nel comparto socio-assistenziale il ritardo delle regioni meridionali riguarda sia i servizi per l’infanzia che quelli per gli anziani e per i non autosufficienti. Più in generale, l’intero comparto sanitario presenta differenziali in termini di prestazioni che sono al di sotto dello standard minimo nazionale come dimostra la griglia dei Livelli Essenziali di Assistenza nelle regioni sottoposte a Piano di rientro: Molise, Puglia, Sicilia, Calabria e Campania, sia pur con un recupero negli ultimi anni, risultano ancora inadempienti su alcuni obiettivi fissati.

I dati sulla mobilità ospedaliera interregionale testimoniano le carenze del sistema sanitario meridionale, soprattutto in alcuni specifici campi di specializzazione, e la lunghezza dei tempi di attesa per i ricoveri. Le regioni che mostrano i maggiori flussi di emigrazione sono Calabria, Campania e Sicilia, mentre attraggono malati soprattutto la Lombardia e l’Emilia Romagna.

I lunghi tempi di attesa per le prestazioni specialistiche e ambulatoriali sono anche alla base della crescita della spesa sostenuta dalle famiglie con il conseguente impatto sui redditi. Strettamente collegato è il fenomeno della “povertà sanitaria”, secondo il quale sempre più frequentemente l’insorgere di patologie gravi costituisce una delle cause più importanti di impoverimento delle famiglie italiane, soprattutto nel Sud: nelle regioni meridionali sono il 3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia; all’estremo opposto troviamo la Lombardia con lo 0,2% e lo 0,3% della Toscana.

I divari si confermano anche per quel che riguarda l’efficienza degli uffici pubblici in termini di tempi di attesa all’anagrafe, alle ASL e agli uffici postali. La SVIMEZ ha costruito un indice sintetico della performance delle Pubbliche Amministrazioni nelle regioni sulla base della qualità dei servizi pubblici forniti al cittadino nella vita quotidiana: fatto 100 il valore della regione più efficiente (Trentino-Alto Adige) emerge che quelle meridionali, ad eccezione della Campania che si attesta a 61, della Sardegna a 60 e dell’Abruzzo a 53, sono al di sotto della metà: Calabria 39, Sicilia 40, Basilicata 42, Puglia 43.  

Anticipazioni del rapporto Svimez

Photo credit: Guglielmo Celata

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